Ha il colore delle capre autoctone calabresi, la rustica, la nicastrese e l’aspromontana. Il manto è nero, nero focato (jelino, dicono i pastori) o con diverse gradazioni di colore come lo zibellino. Orecchie pendule, pelo semilungo, taglia grande. Vive in simbiosi con il bestiame ed è particolarmente efficace nel tenere lontano il lupo. Il pastore della Sila non è più una razza estinta: un’azienda zootecnica di San Giovanni in Fiore ha recuperato il custode degli armenti calabresi, allevando esemplari in purezza.
L’ente nazionale di cinofilia ha iscritto il cane nel registro genealogico. E dalle Alpi, dove il lupo minaccia i pascoli, è boom di richieste. Cinquecento gli animali attualmente censiti tra Calabria, Toscana, Liguria, Veneto e Piemonte. I primi programmi di accoppiamento sono partiti nell’allevamento di San Giovanni in Fiore, grazie alla collaborazione di alcuni pastori delle Pagliarelle (frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone) che avevano mantenuto la razza: pochi esemplari, impiegati per la guardiania delle mandrie al pascolo o in trasumanza, in aree isolate dell’entroterra calabrese.
Fino agli anni ’50, i cani vennero utilizzati anche per sorvegliare i bovini podolici, tipici della regione (oggi presidio Slow Food). Ma poi la riforma agraria sovvertì tutto il sistema zootecnico: gli allevamenti che sfruttavano i terreni in modo estensivo, furono soppiantati da quelli in stalla ad alta produzione. Così il cane pastore della Sila cadde nell’oblio: recuperare la razza oggi significa “riscoprire una risorsa biologica antica che porta in sé la memoria genetica di popolazioni passate e di equilibri naturali creati tra territorio e animali”, spiega l’agronoma Isabella Biapora, titolare dell’azienda Jurevetere di San Giovanni in Fiore.
Il centro di recupero e selezione calabrese lavora in collaborazione con Vetogene, spin off della facoltà di Medicina veterinaria di Milano, cui è affidata la mappatura genetica dei cani. Si prevede un loro rapido incremento numerico che aprirà le porte della Federazione cinologica internazionale.
Nel frattempo, una convenzione con il Parco nazionale della Sila, volta a tutelare la fauna selvatica e in particolare il lupo, spesso vittima di bracconaggio, riconosce l’utilizzo dei cani autoctoni come strumento di lavoro e di prevenzione per i danni da predazione: li consegna ai pastori che, pur praticando un allevamento tradizionale (allo stato brado o semibrado), ne sono sprovvisti. E ripopola i territori diffondendo il cane più antico della Sila in tutte le aree del parco.
di Donata Marrazzo
fonte: ilsole24ore.com