La cinofilia intesa come interesse affettivo per il cane, fine a se stesso, e disgiunto da eventuale sua utilità pratica è nata circa a metà ‘800 quasi contemporaneamente in Inghilterra e Francia. La prima mostra canina si ebbe a Birmingham nel 1860 mentre i francesi organizzarono la loro prima a Parigi nel 1863. Nel 1873 fu istituito il Kennel Club inglese il quale l’anno dopo aprì lo Stud Book; farà da modello per tutti i circoli cinofili compreso quello italiano. Nello stesso periodo nacque una letteratura cinofila. Questi primi testi sono molto interessanti perché mostrano il passaggio tra due diversi modi di considerare il cane. Nella prima metà dell’800 siamo in una epoca in cui ogni razza serve ancora principalmente lo scopo per il quale è nata per cui la sua particolare funzione viene messa in primo piano. Per fare un esempio, Révoil (1867), uno dei primi autori cinofili, racconta minuziosamente le differenze nel modo di lavorare delle molte razze francesi di segugio (chiens courants). Ma in questo periodo c’è l’esordio della zoognostica, e quindi della visione meccanicistica dell’animale, che col tempo prevarrà in assoluto negli “standards of points” moderni, segnando il passaggio dal mondo reale a quello immaginario. Ora il cane non è più ciò che sa fare ma ciò che appare.
I primi autori cinofili sono gli inglesi W. Youatt (1845) e H. D. Richardson (1857), i francesi B.-H. Révoil (1867) e P. Mégnin (1877), i tedeschi L. J. Fitzinger (1876) e O. Friedrich (1878), e A. Vecchio (1897) per gli italiani. In questi autori ritroviamo in buona parte le razze canine che esistono ancora oggi tuttavia sono Incredibilmente assurde le spiegazioni che danno riguardo alla loro filogenesi.
Personalmente Révoil è quello che mi piace di più, anzitutto perché rivela una visione vitalistica quando descrive l’intelligenza del cane e la funzione particolare di ogni razza. L’intento di Révoil è di elencare per la prima volte tutte le razze conosciute. Ne nomina circa 150 di cui la metà sono prevedibilmente francesi e inglesi, in maggioranza razze da caccia. Nelle razze francesi sono più numerosi gli “chiens courants” mentre in quelle inglesi, pur non mancando i “hounds”, troviamo più “spaniels”. Per Germania, Italia, Spagna e Russia ne cita meno di dieci per ogni paese. Le rimanenti provengono dal resto del mondo.
A noi interessano, ovviamente, le razze italiane. Quelle riportate da Révoil sono: « Chien des Abruzzes, Chien à loups italien, Braque italien, Griffon du Piémont, Canne ou barbet du Piémont, Lévrier de Sardaigne, Levrette italienne ».
Il “Chien des Abruzzes” viene descritto come buona razza, addetta alla difesa del gregge, e dall’aspetto imponente e bello. Il pelo è bianco puro, a volte con qualche sfumatura gialla. Viene ricordato l’episodio del 1765 quando questi cani vennero importati in Francia per combattere la famosa Bestia di Gévaudan.
Il “Chien à loups italien” è diffuso sulle Alpi e il Révoil lo dice simile al Cane dei Pirenei. C’era evidentemente continuità tra i due cani perché i due svolgevano la stessa funzione e si incontravano sui pascoli invernali della costa francese del Mediterraneo dove le loro greggi convergevano dai Pireni orientali e dalla Alpi Marittime.
Il “Braque”, il Bracco italiano, Révoil lo descrive poco elegante ma con un fiuto senza pari e una tenacità nel lavoro che entusiasmerebbero anche il cacciatore più distratto. Il “Griffon”, ovvero lo Spinone, il Révoil lo da originario del Piemonte. Ha il pelo lungo e ruvido, irsuto e disordinato. Le sue forme sono angolose, le articolazioni lunghe, soprattutto nelle zampe. Le orecchie sono spesse e arrotondate, gli occhi piccoli, la testa snella ed un muso con mustacchi e pizzo. Gli amatori preferiscono il manto sale e pepe oppure fulvo con un po’ di bianco. Lo Spinone è di taglia media ma ci sono alcuni molto alti sulle gambe. Molto coraggioso, va all’acqua come un water spaniel e come un cinghiale s’infila nei più densi forteti.
Secondo l’autore, il Piemonte contenderebbe l’onore alla Danimarca di avere prodotto il “Barbet” ovvero il Barbone. Nel 16° secolo veniva usato per la caccia in palude ma ora lo si vede più spesso nei circhi. Il Barbone è rivestito di una lana soffice che va sempre pettinata e periodicamente tosata altrimenti crea problemi. Ha un corpo raccolto, gambe non bene in proporzione, testa tonda accollata male, orecchie pendenti molto larghe. In compenso vanta un fiuto eccezionale, una fedeltà da …. Barbone e talmente intelligente da poter giocare a domino e a carte. L’acqua è l’elemento di questo cane. Prima della moda del Terranova, ogni capitano imbarcava un barbone sia per soccorrere chi cadeva in mare, sia per riportare gli uccelli che costui sparava durante la navigazione.
Révoil continua raccontando che nell’isola di Sardegna esiste una razza di levriere chiamata “cane cervino” poiché ha un manto che ricorda il colore del cervo, somiglianza accentuata dall’uso di tenergli la coda corta.
Infine c’è il famoso Piccolo Levriere Italiano che il Révoil chiama “levrette italienne ou espagnol”. Fulvo dorato e tortora sono i colori più apprezzati ma c’è una rara varietà nero corvino ancora più ricercata. Il peso massimo è di otto libbre. Il muso di color nero o grigio scuro è più corto in proporzione di quello dei levrieri grandi, le orbite sono più grandi e il cranio più bombato. La coda sottilissima deve essere portata appena ricurva. L’attribuzione di una patria comune spagnola si incontra solo in Révoil e lascia qualche interrogativo.
Storicamente le razze italiane più famose sono sempre state il Cane da Pecora Abruzzese ed il Piccolo Levriere Italiano. Notevole l’asserzione che Spinone e Barbone sono razze di origine italiana. Il Barbone come tale non è oggi nell’elenco dell’ENCI, però abbiamo il Cane da Pastore Bergamasco e il Lagotto che potrebbero essere delle derivazioni. Il Bracco Italiano è la prima razza che figurerà nello stud book (L.O.I.) italiano. Il “Chien à loups italien” delle greggi alpine si è da allora estinto ma ora con il ritorno del lupo sta tornando sulle Alpi portato dall’Abruzzo. Il levriere sardo pare che esista tuttora ma sinora non ha mai subito, per disgrazia o per fortuna, le attenzioni dell’ENCI.
Paolo Breber